Die Shoah in der deutschsprachigen Literatur
Zusammenfassung
Leseprobe
Inhaltsverzeichnis
- Cover
- Titel
- Copyright
- Über das Buch
- Zitierfähigkeit des eBooks
- Inhalt
- Vorwort
- Gershom Scholem e Auschwitz
- „… how can this – how can this be true??“. Thesen und Materialien zum traumatischen Einbruch des Wissens um die Shoah im deutschsprachigen Exil: Von Ernst Waldingers Lublin-Gedicht (1939) zu Mimi Grossbergs Auschwitz-Schock (1942/47)
- Erziehung durch die Eingliederung der Einzelnen Stimmen in die Weltgeschichte
- „Who are those children?“ Die Aufarbeitung des Kindertransports in ausgewählten Texten
- „Hand an sich legen“ oder „Trotzdem ja zum Leben sagen“? Der Freitod und die intellektuellen Überlebenden der Shoah. Viktor Frankl und Jean Améry
- Gedächtnis der Shoah und Surrealität bei Wolfgang Hildesheimer und Peter Weiss
- Von Schreibtischtätern und Vergangenheitsbewirtschaftern: Literarische Inszenierungen des bürokratischen Apparats in der Holocaustliteratur
- Die Überlebensgeschichte des Hertzko Haft. Reinhard Kleists grafische Biografie Der Boxer
- Deutsch als Lagersprache und als Kultursprache in französischen und italienischen KZ-Berichten
- Das verräumlichte Gedächtnis. Aufarbeitung der Vergangenheit in Giorgio Bassanis Il giardino dei Finzi-Contini und Alfred Anderschs Ephraim
- Tamar Radzyner: „Ich bin ein Testament“
- Max Mannheimers Spätes Tagebuch. Eine (Schul)lektüre
- Nelly Sachs und Paul Celan: ein roter Faden zwischen ihren Werken
- Judith Kerrs Roman Als Hitler das rosa Kaninchen stahl — Ein Kinderbuch am Rande des Holocaust
- Disintegration Loops. Le flânerie di Sebald nella distruzione perpetua
- Wilhelm Bartsch und die Lebenskarte: eine gesellschaftskritische Analyse durch die Jahrhunderte
- Adressen der Beitragenden
- Jahrbuch für Internationale Germanistik Reihe A ‑ Gesammelte Abhandlungen und Beiträge
Vorwort
Vom 22. – 23. November 2021 fand in Bologna eine internationale Tagung unter dem Titel Die Shoah in der deutschsprachigen Literatur statt, die in Zusammenarbeit der Universitäten Gießen und Bologna organisiert wurde. Nach dem „Zivilisationsbruch“ Auschwitz (Dan Diner) hatten alle Versuche, sich in deutscher Sprache dieser für viele Jahre tabuisierten Vergangenheit zu stellen, nicht nur gegen Vorbehalte und Misstrauen zu kämpfen, sondern musste zuallererst ihre Form finden, die das Unsagbare doch in Sprache auszudrücken erlaubte: „speaking the unspeakable“, wie eine der wichtigsten Forschungsarbeiten der jüngeren Zeit titelte.1 Dass es unmöglich sei, über Auschwitz zu sprechen, und doch genau das bis heute als neuer kategorischer Imperativ unermüdlich zu tun sei, ist der Sinn der oft reduziert und falsch verstandenen These Adornos, nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben sei barbarisch.2
Forschungsarbeiten zu den Versuchen, sich mit der Shoah, dieser deutschen Vergangenheit literarisch zu befassen, gibt es inzwischen in großer Zahl, und das entstandene recht differenzierte Bild vermag deutlich die historischen, ästhetischen und politischen Akzente in der sehr komplexen deutschsprachigen Shoah-Literatur nachzuzeichnen. Die literarische Auseinandersetzung (und erst recht die historische) sowie die Diskussion darüber sind aber kein Phänomen einer nun abgeschlossenen Vergangenheit. Die literarische Auseinandersetzung mit Auschwitz ist weiterhin Thema deutschsprachiger Literatur, man denke an Eva Menasses Roman Dunkelblum (2021). Dazu kommt, dass viele Dichterinnen und Dichter, gerade wenn sie jüdische Wurzeln haben, oft aus der literarischen „Erinnerungskultur“ wie auch der literaturwissenschaftlichen Diskussion verschwunden sind, noch bevor sie dort Spuren hinterlassen konnten (Tamar Radzyner, Ilse Weber). Manche Bereiche, etwa die „Zeugnisliteratur“ von Überlebenden oder auch die Kinder- und Jugendliteratur zur Shoah sind noch wenig behandelt. Das Thema in all seiner Komplexität ist weiter aktuell und noch lange nicht ausdiskutiert.
1 Sonja Boos: Speaking the Unspeakable in Postwar Germany: Toward a Public Discourse on the Holocaust. Cornell University Press 2014.
2 Theodor W. Adorno: „Kulturkritik findet sich der letzten Stufe der Dialektik von Kultur und Barbarei gegenüber: nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben, ist barbarisch, und das frißt auch die Erkenntnis an, die ausspricht, warum es unmöglich ward, heute Gedichte zu schreiben.“,In: Kulturkritik und Gesellschaft,“ geschrieben 1949, publiziert 1951. Gesammelte Schriften. Vol. 10.1. (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1980), S. 30.
Gershom Scholem e Auschwitz
Saverio Campanini
Janitscheck: Ja, sagen Sie, können Sie nit deutsch?
Moritz: Vun Ihna wer’ ich daitsch lernen.
A. Bergmann, Die Klabriaspartie
Non si può nascondere un certo imbarazzo nell’intervenire su un tema – letteratura e Shoah – al quale non mi autorizzano competenze professionali ma quasi solo relazioni emotive: attrazione e lunga frequentazione per il primo dei suoi poli e un sentimento di costernazione e vergogna che fatica ad articolarsi in analisi e tantomeno in conoscenza scientifica per il secondo. Alla richiesta cortese ma ferma del collega Michael Dallapiazza che non contemplava d’esser declinata, mi è parso di poter rispondere proponendo la coppia di termini che forma il titolo del presente contributo, per provare a riflettere se Gershom Scholem (1897–1982), di natura loquacissimo, ma sempre piuttosto parco di parole sulla Shoah, abbia pur detto o omesso qualcosa di importante sulle premesse o sulle conseguenze di quell’evento mostruoso, per la sua percezione della storia ebraica e della storia tedesca, i poli intorno ai quali, volens nolens, tutta la sua vita intellettuale si è svolta.1
Pare opportuno prendere le mosse da una pagina dell’autobiografia che Scholem pubblicò in lingua tedesca nel 1977,2 dopo averci lavorato nel biennio 1975–1976, che vide anche la pubblicazione di alcuni stralci, in tedesco3 e in inglese.4 Il progetto era nato come da una costola del libro che aveva lungamente meditato, e che a sua volta nasceva dalla pubblicazione delle lettere dell’amico Walter Benjamin, che curò insieme a Theodor Wiesengrund Adorno nel 1966,5 mi riferisco alla biografia dell’amico apparsa nel 1975 con il titolo Walter Benjamin. Die Geschichte einer Freundschaft.6 Si tratta di un complesso di opere e di interventi che, direi non a caso, si intensifica solo dopo il pensionamento del grande studioso, che avvenne nel 1965, quando ebbe finalmente il tempo di realizzare il progetto a lungo accarezzato di raccogliere le memorie e i frammenti dello scambio intellettuale e della vivace amicizia che lo aveva legato al critico, scrittore e filosofo berlinese. Come Benjamin un giorno gli aveva scritto: “ho conosciuto l’ebraismo vivente solo attraverso di te”,7 così Scholem arrivò a scrivere di sé soltanto alla fine di un lungo percorso e grazie al confronto con Benjamin. Certo si trattò di due destini molto diversi, di due uomini che erano consapevoli da sempre della loro diversità e ne avevano fatto un punto di forza del loro rapporto, a lungo solo epistolare, ma anche questo détour percorso per arrivare a sé passando per l’altro ne è, se ce ne fosse stato bisogno, un’ulteriore, evidente, conferma.
In numerose lettere scritte dopo la pubblicazione della sua autobiografia, intitolata programmaticamente Von Berlin nach Jerusalem. Jugenderinnerungen, a quanti gli chiedevano,8 visto che la narrazione, come prometteva il sottotitolo, arrivava soltanto al 1925, se un nuovo volume con i ricordi della maturità avrebbe fatto seguito a questo, lo negava recisamente,9 asserendo che non aveva la minima intenzione di sottoporre a un pubblico tedesco un percorso molto meno lineare, fatto di dubbi, di sconfitte laceranti, tanto sul piano personale (per esempio il divorzio dalla prima moglie Escha, che si compì nel 1935) quanto su quello politico, con il naufragio della conventicola di intellettuali sionisti chiamata Berit Shalom (patto di pace) di fronte alla realtà durissima dello Yishuv sotto mandato britannico in particolare a seguito delle rivolte arabe del 1929 e del 1936–1939, ma soprattutto a causa della realizzazione ben al di sotto delle speranze utopiche e assai lontana dai progetti del sionismo culturale di Achad Haam, al quale Scholem era stato vicino, del grande movimento sionista che aveva partorito lo stato di Israele, certo, ma non pareva davvero aver risolto, come pure era stato promesso, la questione ebraica nella diaspora e nemmeno in Palestina. Di tutto questo Scholem non voleva parlare, men che meno a un pubblico germanofono che ne avrebbe tratto conclusioni sbagliate, né avrebbe parlato dell’arresto del fratello Werner, deputato comunista, e della sua morte, a Buchenwald,10 o della carriera della cognata di Walter Benjamin, vedova di Georg Benjamin, assassinato a Mauthausen nel 1942, Hilde, la quale divenne ministro della giustizia nella Repubblica Democratica Tedesca.11 Un secondo volume dell’autobiografia non ci sarebbe stato per le stesse ragioni apologetiche alle quali il volume apparso obbediva. La gioventù, l’oggetto delle passioni del primo Benjamin, seguace di Wyneken, e una delle invenzioni categoriali del Novecento, si chiudeva con l’immigrazione sionista nel mandato britannico ovvero – ed è il suo aspetto complementare e ideologicamente inevitabile – l’addio alla Germania, all’ebraismo assimilato dei suoi genitori, all’antisemitismo prima mascherato poi del tutto palese e sempre più brutale, in una parola, che è un programma sionista completo, la shelilat ha-galut, il rifiuto della condizione diasporica. Non ci sarebbe stata una seconda parte dell’autobiografia, nemmeno se Scholem, che era nato nel 1897, fosse vissuto più a lungo, oltre gli ottantaquattro anni che aveva compiuto poco prima di morire, a Gerusalemme, dopo aver precipitosamente abbandonato Berlino, dove aveva in animo di restare per tutto l’anno accademico, presso il Wissenschaftskolleg appena fondato,12 per evitare il sommo affronto di dover morire in esilio, ossia nella città nella quale era nato, nel febbraio del 1982. Tra le sue carte, però, c’era un progetto a cui teneva, l’edizione ebraica dei suoi ricordi di gioventù: il libro Mi-Berlin li-Yrushalayim. Zikhronot ne‘urim.13 Le due versioni non sono l’una la traduzione dell’altra, ma si tratta di due libri diversi, come si può verificare facilmente dato che entrambe sono state tradotte in italiano, quella tedesca nel 198814 e quella ebraica nel 2004.15 A riprova che la versione ebraica rappresenta, in certo modo, un altro libro, vi è la circostanza che, nel 1994, ne fu pubblicata una traduzione tedesca.16 Le principali differenze, come Scholem precisa,17 sono prospettiche, alcune informazioni superflue per il lettore tedesco, sono aggiunte in ebraico e altre, indispensabili per un non-ebreo, ma triviali in Israele, sono omesse. Tuttavia, se si legge con attenzione, le divergenze tra le due versioni hanno anche un significato diverso. La versione tedesca, retta da un principio apologetico ad extra è ben lontana dalla confessione e anzi rappresenta l’orgogliosa rivendicazione, adesso che i tedeschi ascoltano e vorrebbero una cattedra di studi ebraici in ogni università, mentre prima della guerra non ne volevano sentir parlare,18 di un percorso lineare, di un sionismo coerente e lucidissimo. Che non ci fosse un futuro per gli ebrei in Germania era un assioma per il giovane Scholem molto prima che diventasse un’evidenza anche per i più recalcitranti. La versione ebraica, meno preoccupata di “quel che diranno i tedeschi” acquista un tono più intimo, di conversazione in famiglia, pur mantenendo l’ossatura dell’originale, sia perché a Scholem non fu dato il tempo di dare l’ultima mano al suo lavoro, sia perché, evidentemente, nemmeno ad intra, per il pubblico israeliano, avrebbe tanto facilmente abbandonato la propria ciarliera reticenza.
C’è un passo che è rimasto immutato nelle due versioni e che considero, anche se a molti lettori è sfuggito, ma non a tutti, per esempio non allo sguardo puntuale di Zygmunt Bauman che lo ha rammentato, seppure senza commentarlo, in un articolo del 1988.19 Parlando della propria infanzia, Scholem ricorda di aver spesso guardato passare i treni dalla stazione Jannowitzbrücke, giusto al di là della Sprea: non i battelli a vapore diretti a Grünau attiravano l’attenzione di Scholem bambino, stanco dei giochi al parco, ma i treni a lunga percorrenza, e in particolare i cartelli che, sui vagoni, indicavano le mete remote di quei convogli. L’esotismo di quei nomi risvegliava la curiosità e il desiderio di altrove nel giovane Scholem in un incanto che, dopo tanti anni, non si era spento. Scholem ricorda però che, dopo essere rientrato a casa, nella Neue Grünstrasse al n. 26, diligente qual era, andava a cercare quei nomi, sull’Atlante di famiglia di Richard Andree. Lo Allgemeiner Handtlas è un fortunatissimo strumento di consultazione presente, un po’ come il Konversationslexikon del Brockhaus, in ogni biblioteca borghese. I nomi delle stazioni di arrivo (Endstationen) erano scritti a caratteri più grandi di quelle intermedie, e così Scholem imparò a conoscere e a familiarizzarsi con toponimi lontani, come Hoek van Holland e Eydtkuhnen, e, aggiungo io, sull’atlante dell’Andree avrebbe visto che si trattava di due stazioni finali in senso proprio, perché tanto si estendeva, a ovest e a nord-est, il sistema ferroviario con lo scartamento normale, a Hoeck van Holland (angolo o gancio d’Olanda), un sobborgo di Rotterdam, finiva addirittura il continente, ma di lì, appena scesi dal treno, si poteva prendere il traghetto per l’Inghilterra, mentre a Eydkuhnen, oggi Černiševskoe nell’oblast’ di Kaliningrad, che fu Königsberg, si doveva cambiare per proseguire verso Riga e San Pietroburgo. Ma c’era un’altra città di destinazione che colpiva la sua attenzione: Oświęcim. Mette contro di citare qui le parole di Scholem, prima di dedicare al passo una breve riflessione:
Die Endstationen waren manchmal mit größeren Buchstaben hervorgehoben als die durchlaufenen Zwischenorte, und so wurden mir Namen wie Hoek van Holland, Eydtkuhnen und das auf Schnellzügen manchmal erscheinende Oswięcim vertraut, ohne daß ich eine Ahnung hatte, hinter diesem fremdländischen Namen, der Grenzstation zwischen Oberschlesien und Galizien, verstecke sich nichts anderes als Auschwitz.20
[Le stazioni d’arrivo erano a volte scritte con caratteri più grandi rispetto alle stazioni intermedie, e così mi divennero familiari nomi come Hoek van Holland, Eydtkuhnen e quell’Oświęcim, che compariva a volte sui rapidi, senza che io sospettassi che dietro questo nome dal suono straniero, la stazione di confine tra l’Alta Slesia e la Galizia austriaca, si celava nient’altro che Auschwitz.]21
Scholem dice, in altre parole, di non avere avuto idea che il nome esotico Oświęcim, scritto sui vagoni corrispondeva al più familiare Auschwitz. Naturalmente Scholem non intende dire, come pure appare dalla strana formulazione che adopera, che egli non potesse sapere che la cittadina della doppia monarchia Austro-Ungarica Oświęcim si chiamava in tedesco Auschwitz. Tanto più che, secondo la pratica che gli era familiare per sua stessa testimonianza, se avesse controllato l’immenso indice posto alla fine dell’atlante di Andree, avrebbe potuto trovare la corrispondenza espressa a chiare lettere. Quello che Scholem dice senza dirlo, o senza riuscire a dirlo meglio di così, è che non poteva immaginare che cosa sarebbe diventato Auschwitz. Ma chi avrebbe potuto immaginarlo nella Germania guglielmina in cui crebbe, prima della Prima Guerra mondiale, prima che la cittadina di confine, Oświęcim, passasse alla Polonia, per essere poi occupata dai nazisti nel 1939 ed essere quindi trasformata, per la prossimità del campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau, in un simbolo della Shoah.
Non sorprende dunque, anzi ci si chiede di nuovo perché lo dica, che non l’avrebbe immaginato, perché non poteva saperlo. Come non poteva sapere, allora, e infatti non lo dice, che nel 1938 la stazione di Hoek van Holland sarebbe diventata l’ultima tappa continentale del viaggio angosciante, ma verso una qualche forma di salvezza, dei Kindertransporte, delle migliaia di bambini ebrei ai quali fu permesso, e non si riesce a immaginare con che cuore, di lasciare il Reich e l’Europa continentale per raggiungere il Regno Unito.
Ma allora perché scrivere quella frase, per di più nel 1977, quando se non tutti, certo molti, e soprattutto Scholem, ben sapevano che Oświęcim è Auschwitz. Voleva dire, si direbbe, che non poteva immaginare che in quel luogo, puramente affascinante perché lontano, si sarebbe compiuto lo sterminio. La visione oscura non osa farsi qui profezia, proprio perché Scholem non aveva mai avuto dubbi, sin da ragazzino, su quale futuro attendeva gli ebrei assimilati, il suo ambiente di nascita, che erano convinti che l’antisemitismo sarebbe scomparso con il progresso e, d’altro canto, che dipendeva anche dagli ebrei facilitare quella scomparsa, assimilandosi il più possibile ai costumi, linguistici e sociali, della società tedesca dominante, per non dare occasione di scandalo e non offrire il minimo pretesto agli antisemiti per puntare il dito sulla differenza ebraica, sulla loro fatale non-assimilabilità, non-integrabilità e, insomma, sulla loro radicale estraneità. Scholem, dal canto suo, era persuaso che l’antisemitismo non sarebbe mai scomparso e che gli ebrei non avrebbero potuto farci granché. Anzi, registrava con un qualche fastidio la censura linguistica che vigeva in casa sua verso espressioni yiddish colorite o lievemente ostili verso i non-ebrei, come “Goyim Naches”, abbreviato “Ghe En” vale a dire un piacere riservato ai goyim, ossia i gentili, non usato in casa sua proprio perché poteva offrire il destro a diffidenza e ostilità.22 Quando una volta andò a teatro a vedere la Klabriaspartie, un cavallo di battaglia degli Herrnfeld, duo comico formato da una coppia di fratelli ebrei convertiti al cristianesimo e il cui pubblico, afferma Scholem, era composto di soli ebrei, gli unici che capissero la parlata, la cadenza e le battute, il padre Arthur lo sgridò perché questo genere di spettacoli favoriva l’antisemitismo. Scholem, il cui padre era morto quasi cinquant’anni prima a un’età inferiore a quella che lui aveva ormai raggiunto, non riuscì o non volle risparmiarsi la battuta: “come se gli antisemiti stessero proprio aspettando i fratelli Herrnfeld”.23 Nondimeno, almeno in un caso, descrivendo gli ultimi mesi della sua vita in Germania, che trascorse a Monaco tra il 1922 e il 1923, Scholem, nella cui memoria si fissarono i colori rosso e bruno delle bandiere e divise naziste, come la tonalità viva nella memoria e l’annuncio, ancora lontano come un temporale, della catastrofe che si preparava, tradisce la propria formazione segnata dall’assimilazione e dal timore di suscitare o giustificare le peggiori dicerie antisemitiche criticando lo sfarzo della dimora di Alfred Pringsheim (suocero di Thomas Mann),24 che infatti fu poi demolita dai nazisti per costruire lo NSDAP Verwaltungsbau, che ancora campeggia, seppure trasformato in istituto universitario (Haus der Kunstinstitute), dopo essere stato, insieme al madornale Führerbau, che chiude da un lato il Königsplatz, lo straripante deposito delle opere d’arte saccheggiate da Göring con spietata avidità, e ancora dedicato alla storia dell’arte, al numero dodici della Arcisstraße. Nell’osservazione o obiter dictum dello Scholem moralista si nasconde forse una chiave utile a capirne la reticenza. Pringsheim era un ebreo poco religioso, e i suoi figli si battezzarono o sposarono non ebrei, mentre i fratelli Herrnfeld, pur convertiti, tenevano viva la cultura yiddish a beneficio di spettatori ebrei. Il danno che Scholem paventa, e gli fa assumere toni moralistici nel caso di Pringsheim e decisamente tolleranti nel caso degli Herrnfeld non è tanto quello che potrebbe venire dagli antisemiti, i quali non avevano certo bisogno di ragioni fondate in re per il loro delirio paranoico, ma quello che ne derivava per la sostanza culturale ebraica, preservata dagli Herrnfeld e dilapidata, a suo parere, da Pringsheim.
Così, quando Scholem parla di Auschwitz, il che avviene molto di rado, si rivolge agli ebrei non meno che ai tedeschi e anzi, per la verità, la sua è un’allocuzione, o un silenzio eloquente, diretta in particolare agli ebrei. Già in gioventù, nei diari redatti durante la Prima guerra mondiale, Scholem aveva coniato l’espressione paradossale, “auf Hebräisch Schweigen” (tacere in ebraico) per dar corpo a una voce carica di autorità e di verità fino al limite dell’auto-annullamento.25 Oggi ci sembra scontato ritenere che la Shoah riguardi gli ebrei, ma si possono formulare serie obiezioni che sia così: da un lato perché, a rigore, la vittima, pur patendo le conseguenze più atroci del crimine, non è certo il soggetto (in senso attivo) di quanto accade, e dunque, a ben guardare, la Shoah è una questione che riguarda assai di più chi la ha perpetrata e chi, ieri come oggi, è rimasto a guardarla; d’altro lato perché la società israeliana in cui Scholem viveva, non riusciva a fare i conti con l’enormità di quello che era accaduto in Europa non solo per le dimensioni e l’atrocità degli eventi, e non tanto, come molti critici malevoli del sionismo suggeriscono, ovvero che senza la Shoah non ci sarebbe stato Israele, questione discutibile quant’altre mai, ma soprattutto perché nel giovane stato, fiero e forte, la passività delle vittime, il loro lasciarsi condurre come pecore al macello, gli incubi e i fantasmi che ossessionavano i DP (Displaced persons) come venivano chiamati i sopravvissuti, i salvati di Primo Levi,26 non potevano che essere motivo di profondo imbarazzo e vergogna, tanto che forte era, almeno fino al processo Eichmann, il desiderio di rimuovere la consapevolezza della Shoah e dei suoi spesso impietriti testimoni.
Uno dei rari casi in cui Scholem, molto indirettamente, prese la parola in pubblico fu proprio in occasione del processo Eichmann, che portò alla grande disputa con Hannah Arendt, sulla quale non vorrei soffermarmi qui,27 se non per dire che essa conferma nelle sue punte estreme la dicotomia alla quale facevo riferimento prima, il rischio di banalizzare il male, che Scholem ingenerosamente attribuisce a Arendt, si accompagna con il rimprovero di mancare di amore per Israele (ahavat Israel) cioè di avere in mente il pubblico della rivista «Commentary» più che i lettori ebrei che potrebbero trovarsi d’accordo con Arendt, o che potrebbero essere offesi dal trovare nei suoi resoconti che gli unici ebrei che furono attivi, furono quelli che, sotto costrizione, collaborarono con i nazisti.
Scholem era intervenuto, in ebraico,28 anche se la prima versione del suo articolo era verosimilmente in lingua tedesca29 (was von Auschwitz bleibt ist die Sprache secondo la notissima e scorticante formula di Arendt)30 nell’estate del 1962, per assumere una posizione anticonformista sull’esecuzione della condanna a morte di Adolf Eichmann. Lo fece quando Eichmann alla fine di maggio era già stato impiccato, per sottolineare che quella morte faceva comodo a troppi: pur persuaso che la meritasse (un milione di volte, scrive) egli riteneva che in questo modo i tedeschi ne ricavassero un indebito sollievo ma anche che gli israeliani, e gli ebrei in genere, vi vedessero un’occasione sin troppo benvenuta, per voltare pagina. Sappiamo quanto Scholem si sbagliasse: il processo e la morte di Eichmann, nonché qualche anno più tardi il telefilm americano a puntate Holocaust,31 hanno contribuito a porre la questione della Shoah al centro del dibattito dove è rimasta, seppure in forme che ci offendono, come la sua trivializzazione imperante nel mondo attuale, fatto di passioni astratte e cortocircuiti digitali, fino ad oggi. Un processo, e soprattutto la parola finis che l’impiccagione di Eichmann illusoriamente promettevano, nonché un prodotto commerciale di fiction, sono alle origini della tematizzazione politico-letteraria della Shoah, il che forse aiuta a comprendere perché nessuno può dirsi veramente soddisfatto delle politiche della memoria o del ruolo educativo che il discorso sulla Shoah non è riuscito ad assolvere nelle culture occidentali, come non lo ha veramente assolto in Israele,32 nonostante o forse a causa della sua monumentalizzazione, non solo nel memoriale conteso di Auschwitz, ma anche a Berlino non meno che allo Yad wa-shem, meta obbligata e passarella per politici in cerca di legittimità o di lucrose commesse.
Scholem aveva perso suo fratello, non ad Auschwitz, come si è detto, ma a Buchenwald, ma, si potrebbe osservare, Werner Scholem fu ucciso perché comunista. L’esperienza della Shoah resta per Scholem, che si era salvato in tempo, indicibile. Alla fine della guerra, Scholem fu incaricato di occuparsi, per conto dell’Università ebraica di Gerusalemme, del destino di milioni di libri rimasti dopo che i loro proprietari erano stati assassinati e le istituzioni alle quali appartenevano erano state liquidate. La visione di questi immensi depositi, a Praga e Francoforte, lo lasciò profondamente scosso e lo fece sprofondare ancora di più nel silenzio. Tentò il possibile per assicurare, contro gli americani che volevano trasportare tutti i libri negli USA e contro i tedeschi che rivendicavano il legittimo possesso di numerosi manoscritti assai pregiati, uno su tutti il codice 95 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, unico esemplare pressocché integro del Talmud salvato da innumerevoli roghi e persecuzioni, per assicurare, e con un successo solo parziale, che una congrua parte di quei libri trovasse la via della Palestina, per nutrire una rinata cultura ebraica nella terra dei padri.33 Ma Scholem non si faceva illusioni: quei libri erano spesso scritti in tedesco, in yiddish, in polacco, in russo e non avrebbero trovato lettori in Israele.
Nell’introduzione alla versione tedesca, che era l’originale, ma apparve solo negli anni cinquanta, del suo Major Trends in Jewish Mysticism, dedicato alla memoria di Walter Benjamin, “caduto sulla via della libertà”, e apparso prima nella versione inglese nel 1941,34 Scholem alludeva alla possibilità di una “chiarificazione” tra ebrei e tedeschi, dichiarandosi incerto che i materiali di storia del misticismo ebraico che formavano l’oggetto di quel libro finalmente disponibile in lingua tedesca potessero essere utili per costruire un ponte sull’abisso che si era spalancato tra i due popoli, ma in una allora divenuta possibile Aussprache, cioè in un dialogo finalmente sincero, tra due soggetti ora disgiunti, e separati da un abisso (Abgrund), avrebbero potuto avere qualche significato.35 La debole speranza, in un discorso che evita il più possibile, e non certo per questione di tatto, di chiamare le cose con il loro nome, è affidata allo studio della storia. Fedele, dunque, agli imperativi di tutta la sua vita, per quanto dubbi tremendi lo assalissero: la validità del paradigma sionista della dissimilazione e della fondazione di ogni legittimo dialogo ebraico-tedesco sulla conoscenza non apologetica di ciò che è stato, ammesso che i due principi siano compatibili. Ma questo era il massimo di franchezza che Scholem intendeva permettersi. Quello che resta non detto, qui e altrove, ciò che per lui di Auschwitz è realmente indicibile, Scholem, a mia notizia, lo ha messo su carta prima ancora che Auschwitz fosse o meglio diventasse il simbolo dello sterminio. In una lettera a Walter Benjamin del 13 aprile 1933, Scholem accenna al paragone tra quell’anno fatale e il 1492, ossia all’espulsione degli ebrei dalla Spagna. E aggiunge un commento che raggela:
Es wird zweifellos eine sehr bedeutende Auswanderung der bürgerlichen Schicht des deutschen Judentums einsetzen, zu einem starken Teil wohl auch hierher, aber ob es nun dabei bleibt und nicht noch viel blütigere Zustände kommen? Das Schreckliche an der Sache ist aber, wenn man das überhaupt wagen darf zu sagen, daß es der menschlichen Sache des Judentums in Deutschland nur fruchtbar sein kann, wenn anstelle des kalten Pogroms, den man versuchen wird einzuhalten, ein echter träte. Es ist fast die einzige Chance, in solcher Explosion etwas Positives hervorzurufen.36
[Ci sarà senza dubbio un’emigrazione assai rilevante dello strato borghese dell’ebraismo tedesco, in gran parte anche quaggiù, ma ci si fermerà lì o si arriverà a una situazione ben più cruenta? Ma il lato tremendo della faccenda è che, se si può osare un’affermazione del genere, alla causa umanitaria del giudaismo in Germania può giovare solo se al posto del pogrom freddo, che si cercherà di contenere, ne seguisse uno vero. È quasi l’unica possibilità di fare uscire qualcosa di positivo da una simile esplosione].37
Scholem era dunque perfettamente lucido, non meno di Benjamin, l’interlocutore adatto per quelle sconsolate parole, visto che quest’ultimo si accorse, anche lui prima che Auschwitz aprisse i suoi osceni cancelli, che Kafka lo aveva previsto, misteriosamente e in virtù di una sensibilità che rasenta la magia. Nella celebre lettera del 12 giugno 1938 Benjamin, da Parigi, scrive a Scholem, a Gerusalemme:
Ich will sagen, daß diese Wirklichkeit für den Einzelnen kaum mehr erfahrbar, und daß Kafkas vielfach so heitere und von Engeln durchwirkte Welt das genaue Komplement seiner Epoche ist, die sich anschickt, die Bewohner dieses Planeten in erheblichen Massen abzuschaffen. Die Erfahrung, die der des Privatmanns Kafka entspricht, dürfte von großen Massen wohl erst gelegentlich dieser ihrer Abschaffung zu erwarten sein.38
[Voglio dire che questa realtà ormai è a malapena esperibile per il singolo, e che il mondo di Kafka, così sereno e popolato di angeli, rappresenta il complemento esatto della sua epoca che si prepara a eliminare in massa gli abitanti di questo pianeta. È possibile che l’esperienza corrispondente a quella dell’individuo privato Kafka sarà accessibile alle grandi masse solo nell’istante della loro eliminazione.]39
Dunque Scholem poteva sapere che Oświęcim era Auschwitz. L’imbarazzo della frase dell’autobiografia Da Berlino a Gerusalemme è proprio dovuto, se non mi sbaglio, a questo. Il suo contenuto implicito sembra potersi riassumere così: “lo sapevo, ma avrei preferito, con tutto me stesso, non saperlo”. Così se non era possibile non saperlo, e tanto meno non averlo saputo, si potrà almeno tacerne, menzionando una stazione finale (Endstation Auschwitz) che è poi sempre un luogo dove si cambia verso una destinazione che un nome non ce l’ha.
Zusammenfassung
Gershom Scholem (1897–1982) war ein überaus produktiver Geschichtsschreiber der jüdischen Kultur und Literatur, war aber merkwürdig zurückhaltend, was den Holocaust betraf. Der Aufsatz versucht, dieses Schweigen, das wohl auch als Verdrängung verstanden werden kann, ausgehend von einer Passage der Autobiografie zu hinterfragen, die 1977 in deutscher und 1982 überarbeitet in hebräischer Form erschienen ist. Hier benutzt Scholem, scheinbar ohne jede Notwendigkeit, das Bild der Züge, die in seiner Kindheit am Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts vom Bahnhof Jannowitzbrücke nach Oswięcim abfuhren, und erklärt dazu, er habe sich nicht vorgestellt, dass es Auschwitz sei. Damit versetzt er sich in die erinnerte Zeit und bezieht sich auf ein unschuldiges Städtchen an der Grenze, das für den späteren Leser nur noch mit der Shoah identifiziert werden kann. Scholem geht nicht so weit zu sagen, dass vorausgesehen habe, in welche Richtung das Schicksals der deutschen Juden gehen würde, die im Gegensatz zu ihm die zionistische Botschaft nicht erhört hätten, aber da er genau das denkt, konstruiert er am Ende einen unlogischen Satz, der als nachträgliche Verlegenheit oder wie ein Schluchzen der Gedanken gelesen werden kann.
1 Gershom Scholem in Deutschland. Zwischen Seelenverwandtschaft und Sprachlosigkeit. A cura di Gerold Necker, Elke Morlok e Matthias Morgenstern. Tübingen 2014; Noam Zadoff: Gershom Scholem. From Berlin to Jerusalem and Back. An Intellectual Biography. Waltham 2017.
Details
- Seiten
- 332
- Erscheinungsjahr
- 2024
- ISBN (PDF)
- 9783034347976
- ISBN (ePUB)
- 9783034347983
- ISBN (Paperback)
- 9783034347419
- DOI
- 10.3726/b21450
- Sprache
- Deutsch
- Erscheinungsdatum
- 2024 (März)
- Schlagworte
- Shoah Holocaustliteratur Literarische Auseinandersetzung mit Auschwitz Literatur und historische Verantwortung
- Erschienen
- Lausanne, Berlin, Bruxelles, Chennai, New York, Oxford, 2024. 332 S., 7 s/w Abb.
- Produktsicherheit
- Peter Lang Group AG